[ Carocci, Roma 2020 ]
Quando non sono mere occasioni editoriali, le raccolte di saggi possono essere risorse interessanti e non prive di fascino, dotate di un doppio valore: ricomporre percorsi di ricerca a volte pluridecennali, le cui pubblicazioni disperse vengono riunite e significativamente riordinate dall’autore, e fornire una certa prospettiva a testi scritti in epoche (storiche e biografiche) diverse da quella in cui l’autore stesso li ha ripresi in mano, riscoprendosi e scoprendo la distanza che ha percorso nel frattempo. Nel genere della raccolta di saggi, il volume di Franco Moretti ha un carattere particolare, o forse semplicemente ha un carattere. La raccolta infatti non si limita a riunire dieci testimonianze rilevanti del progetto critico-teorico che Moretti porta avanti da anni – quello legato al Literary Lab di Stanford e ai suoi esperimenti sulle Digital Humanities, qui rappresentati da una selezione di testi usciti tra il 1993 e il 2011 – ma sfrutta il vantaggio dello sguardo retrospettivo per integrare i saggi recuperati con qualcosa che la scrittura del saggio in quanto tale in genere preclude, ovvero le reazioni dei lettori, il dibattito critico e la discussione delle obiezioni (anche aspre) emerse durante lo iato temporale.
A una certa distanza è quasi più interessante per l’operazione metacritica condotta che per i saggi riproposti. L’unione delle singole prefazioni che introducono ogni testo ripercorre il solco di dialoghi e polemiche non sempre pacificate, in un’autoriflessione che include risposte, rivalutazioni, rivendicazioni, anche sorprendenti: «una studentessa della Columbia University, Jessica Brent, sollevò un’obiezione […]. Jessica Brent aveva ragione, punto» (pp. 66-67); «qui la questione è semplice: Parla e Arac hanno ragione e me ne sarei dovuto accorgere. […] Una volta che ti viene dimostrato che ti sbagli, la questione non riguarda più te» (p. 84); «nel corso della stesura di questa risposta, mi sono reso conto sempre di più (e con un certo disagio) di quanti risultati poco concreti siano emersi finora dai modelli discussi nella Letteratura vista da lontano» (p. 105).
A differenza di quanto si osserva a volte nelle raccolte di saggi, qui la distanza invocata nel titolo è il perno di un cambio di prospettiva ma non implica affatto un ritrarsi dei toni più apertamente oppositivi o un abbassarsi della temperatura della conversazione. E se da un lato questa intensità fa persistere alcuni nodi problematici (talvolta il discorso finisce nell’impasse della petizione di principio, o la proposta di partenza sembra stingere sulla conclusione e ciò che è stato ipotizzato si confonde con ciò che è stato scoperto, o ancora si dà sfogo a quello stile scorciato che, in nome del rimescolamento delle idee e dei rovesciamenti di tavoli teorici, perde le sfumature e trasforma le somiglianze in identità e le corrispondenze in equazioni), dall’altro trasmette l’acuto sforzo intellettuale richiesto dal progetto autenticamente titanico di una riforma integrale della critica letteraria, un «formalismo senza close reading» (definizione di Jonathan Arac qui ripresa e fatta propria da Moretti) a cui l’autore affida con genuina convinzione il compito di fondare un intero nuovo continente ermeneutico.
Certo, restano aporie radicali non affrontate e forse non affrontabili, come quella circolarità irrisolta che deriva dall’applicazione di un approccio data driven al campo letterario: un campo in cui, appena ci si solleva dal piano linguistico, i dati non esistono più in modo oggettivo, ma solo come esito dello sguardo dell’interprete che seziona il flusso del testo e stabilisce nomi, dimensioni e relazioni dei segmenti. E che rischia quindi di trovare sempre solo ciò che cercava fin dall’inizio. Ma questo libro resta nonostante tutto un documento affascinante, il diario vivo di un progetto ambizioso, tentato da un mare dell’oggettività in cui abbiamo appena iniziato a distinguere lo spazio navigabile dalle prospettive intriganti di impercorribili distanze.
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