[Effigie, Milano 2009]
Massimo Rizzante è l’esponente di una specie rara in Italia. Il saggista, come si sa, segue regole che non sono le stesse che governano la produzione scientifico-accademica. I testi di Rizzante, per esempio, fanno a meno delle note, riducono i tecnicismi, e portano sulla pagina l’individualità, l’esperienza vissuta, la biografia dell’autore, dunque chi cercherà la precisione filologica resterà insoddisfatto. I materiali di Non siamo gli ultimi hanno un’origine eterogenea, ma sono stati disposti in una struttura tripartita che orienta la lettura e rende esplicito il senso dell’insieme. La prima sezione del volume, Literaturistan, è la pars destruens: la «Repubblica delle lettere», scrive Rizzante, è divenuta «Literaturistan», ovvero un luogo dominato da una rigida divisione del lavoro intellettuale, incentrato sulla differenza (di genere, razza, ecc.) dove l’universalità non è più possibile.
Poi l’autore analizza criticamente (e boccia senza appello) molta letteratura contemporanea di successo. L’autore se la prende con gli «infantosauri»: «una specie che non sarà mai adulta fino al giorno della sua estinzione», intenta a produrre e utilizzare una letteratura di rapido consumo, ingenua e senza memoria. Rizzante non si limita a una critica: nelle ultime due parti, Il fiore inosservato della bellezza e Non siamo gli ultimi, propone una lunga serie di autori, notissimi (Borges, Tolstoj, Kafka), noti (Kiš, Bolaño, Fuentes, Sabato, Goytisolo) e meno noti (Eppel’, Vilhjámsson, Richterová), le cui opere si situano al centro della sua analisi per poi comporsi organicamente in una proposta di canone. La seconda parte si sofferma sull’analisi di alcuni scrittori e della loro produzione mentre la terza allarga il discorso cercando di cogliere le cifre della cultura contemporanea.
Contro Derrida e un’idea di scrittura come attività intransitiva, ma anche contro l’opera come performance messa in scena da scrittori-attori, l’opera in quanto «sfida umana al caos delle forme» occupa un posto preciso nel campo culturale; da quel posto essa informa il mondo di sé mentre ne è informata a sua volta – una relazione ambigua ma secondo l’autore indubitabilmente presente. Guida l’indagine l’idea di arte come attività che trascende la sua specificità storica senza però abbandonarla del tutto. Rizzante propone una letteratura attenta all’architettura del testo (e dunque all’«arte della composizione » kunderiana), alla coesistenza di registri, fonti e tempi incompatibili al di fuori del romanzo, del quale forma l’ossatura.
Il romanzo offre al lettore una visione del mondo autonoma rispetto ad altre forme di conoscenza proprio grazie a questa coesistenza; da essa origina la vena comica che sta alla base di ogni impianto romanzesco. Secondo l’autore un altro punto caratteristico del romanzo è la messa in scena del tempo; dunque il romanziere deve anche sapere utilizzare «l’arte del ricordo», ovvero la stratificazione dei tempi (il presente, il passato o meglio: i passati) che ogni istante porta con sé. Una delle tesi alla base del libro, inoltre, è che non si dà arte senza imperfezione, dunque senza singolarità individuale: anche la metafora romanzesca, che a differenza di quella lirica «comprende e decifra il senso delle azioni di un personaggio specifico», è legata a una forma di conoscenza individuale.
Nella sua analisi Rizzante non si perde mai nella selva degli studi culturali, ignora caparbiamente le categorie di genere, razza e nazionalità perché considera gli scrittori esclusivamente in quanto uomini non appartenenti a un’etnia o a un genere particolari. L’ideale che lo spinge è quello della Weltliteratur – di una Weltliteratur declinata al tempo di «Literaturistan» – dove le basi storiche e socio-culturali (essenziali, come abbiamo visto, al romanzo) non sono negate ma trascese in nome di una comune appartenenza alla «repubblica delle lettere». Un libro che forse a molti non piacerà ma ciò non di meno un libro che crea dibattito. E ne avevamo bisogno.
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