[Donzelli, Roma 2009]
Tanto agile quanto ambizioso, l’ultimo, piccolo libro di Daniela Carmosino promette di rinfocolare la discussione sulla narrativa impegnata di un’ampia schiera di scrittori italiani trenta-quarantenni. Sulla variegata leva degli autori che sono tornati a prediligere il corpo a corpo con la realtà presente si discute da almeno un quinquennio, e cioè almeno da quando è esploso il caso Saviano. Una prima particolarità del libro risiede nell’enfatizzazione della loro origine meridionale. La sua principale novità, anticipata dal titolo, può essere individuata nel collegamento tra la necessità di relazione diretta con la realtà e quella di reazione ai topoi della grande narrativa meridionale.
Dominata dalla pratica di generi confinanti con il saggismo, la nuova guardia dei cosiddetti giovani narratori meridionali non appare solo molto nutrita, e, se si vuole, pur con le dovute differenze interne, compatta, ma si impone anche – ed è quello che più conta nell’affascinante ipotesi di Carmosino – come fondatrice di una nuova categoria mentale di Sud, in aperta opposizione rispetto alle pregresse. La rimozione consapevole e intenzionale di stereotipi e luoghi comuni letterari costruiti dal Sud e sul Sud avviene nel segno dell’omicidio metaforico evocato dal titolo, che ovviamente rievoca il manifesto futurista marinettiano del 1909.
Essa si registra nel segno dell’antiliricità, e nel gesto di rottura, più o meno meditato, più o meno velleitario, che fa somigliare questi narratori a dei redivivi avanguardisti istintuali, quasi sempre privi di teoria. Il pensiero meridiano di Franco Cassano è il termine di partenza del discorso di Carmosino, che avvia la propria ricognizione dal dibattito sul meridione sviluppatosi negli anni Novanta, per collegarla alle più recenti discussioni sul presunto nuovo realismo contemporaneo. Basterebbe già questo collegamento, tutt’altro che scontato, a rendere il libro stimolante. Ma gli elementi di interesse sono molti.
La forza del saggio non dipende tanto dalla serie di ipotesi proposte, quanto dalla capacità di correlare con sguardo sintetico fenomeni apparentemente eterogenei. E nonostante l’autrice, con una modestia encomiabile e persino un po’ eccessiva, si nasconda dietro le quinte, prospettandosi come semplice descrittrice, il suo discorso fa emergere in modo convincente una rete complessa di rimandi tra Giuseppe Montesano e Carmine Abate, tra Valeria Parrella e Antonio Pascale, tra Gaetano Cappelli e Antonella Cilento, e tra molti altri, senza dimenticare, naturalmente, Roberto Saviano. Forse non è vero che in tutti questi scrittori sia sempre presente il bisogno di recidere una tradizione.
O che tutti percepiscano un senso di distanza da scrittori come Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi, Brancati, Sciascia, Bufalino, Consolo, Camilleri e molti altri. Carlo Levi è certamente un modello rifiutato, ma già riguardo a Pasolini sarebbe necessario essere più cauti. Né si può dire che tutti questi autori abbiano sempre e solo cantato la luna a marechiaro. E tuttavia, se la realtà è il referente irrinunciabile del nuovo Sud letterario giovane, e se la letteratura che non vi è dedita in via prioritaria si può identificare con la metafora della luna a marechiaro, allora è indubbio che la sua uccisione venga davvero, e collettivamente, perpetrata, nel segno di una vivace spinta energetica e creativa, che il saggio di Carmosino riesce bene a cogliere.
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