[Mikado Film, 2008]
È possibile costruire un racconto storico che escluda i grandi eventi, componga lo sfondo assemblando lacerti di cultura di massa e si affidi all’assoluta particolarità dell’esperienza dei singoli? Alina Marazzi, nel suo ultimo film Vogliamo anche le rose, affronta mirabilmente la sfida: raccontare un decennio chiave della storia sociale italiana – dalla fine degli anni Sessanta alla fine dei Settanta – scegliendo come filtro narrativo le voci di tre giovani donne che hanno affidato ai loro diari il tracciato della propria esperienza. Nessun personaggio inventato dunque, ma tre esistenze ignote attraverso cui rileggere la contestazione, le lotte per i diritti civili, il femminismo.
Proseguendo il percorso iniziato con il bellissimo Un’ora sola ti vorrei, Alina Marazzi realizza un documentario dalla struttura complessa, che degli anni della “mutazione” propone un’interpretazione dal basso, che cuce insieme, sul canovaccio di parole e immagini della vita privata (filmini casalinghi e fotografie), reperti di storia materiale (pubblicità, fotoromanzi e cartoni animati), fonti storiche istituzionali (documentari della Rai e dell’archivio del movimento operaio), materiale artistico (film sperimentali). Un’interpretazione libera da schematismi ideologici, per nulla annacquata dalla nostalgia autoassolutoria di chi quegli anni ha vissuto da protagonista.
La regista, infatti, poco più che quarantenne, appartiene alla generazione di chi ha attraversato il riflusso e la terra bruciata fatta da chi, negli anni Settanta, “voleva tutto” e, in parte, tutto ha preso. Il suo sguardo, aperto e critico, riesce a proporre, in questo biennio logoro di celebrazioni e revisioni del tempo della rivoluzione, una vera e propria fenomenologia del disagio della libertà. I tre diari delineano percorsi in parte marginali: Anita, la prima voce del film, è un’adolescente di Milano, timida e sessualmente inibita, che nel Sessantotto inizia l’università; la contestazione è vista solo di riflesso, come un’onda montante che molte seppero cavalcare ma da cui molte altre rimasero travolte.
Com’era e cosa faceva la maggior parte delle donne dell’epoca, quelle che si trovarono strette tra un modello femminile e familiare tradizionale e l’allettante sogno di capovolgimento della società? Di questo snodo chiave, che provocò un disorientamento sociale e di genere fortissimo, al limite della schizoidia, il film rende conto con acutezza e sensibilità. Il diario di Teresa è fulminante: è la storia di un aborto clandestino, raccontato dalla voce di una diciassettenne della provincia di Bari; le immagini dei seminari in cui i radicali spiegavano il metodo Karman per abortire “artigianalmente” fanno da contrappunto a una vicenda privata dolorosissima, vissuta con paura e ingenuità insieme.
Il discorso politico è qui alluso e poi restituito all’inesperienza di quella voce femminile, al suo sguardo periferico e spaesato, ma proprio per questo più significativo e illuminante. Il privato non fa semplicemente da conferma esemplare del collettivo; si mostra anzi la faglia tra le esistenze individuali e il movimento della Storia. Così, anche l’ultimo diario, quello di Valentina, femminista della Casa della donna di Roma, propone un percorso pensoso e critico, in cui, nel tentativo di pensare nuovi modelli di relazione tra i sessi, più chiaro appare il difficile scollamento tra idee, utopie e vite singole.
Il film innesca un duplice movimento: ripercorre le tappe di un cammino di conquiste civili e di acquisizioni teoriche fondamentali, che fa scolorare l’Italia del presente, in cui è in atto un massiccio processo di separazione normativa dei generi; al tempo stesso, senza ridimensionare l’importanza e lo slancio ideale di quella stagione, ne mostra le contraddizioni dall’interno, dal profondo della voce delle donne che sperimentarono su se stesse, sul proprio corpo e sulla propria psiche, l’entusiasmo e il disagio del cambiamento.
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