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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Mario Benedetti, Pitture nere su carta

[Mondadori, Milano 2008]

È un deficit apparentemente ottico e in realtà esistenziale, a scandire il percorso della poesia di Mario Benedetti, dagli esordi degli anni Ottanta a Umana gloria del 2004 (e già Raffaella Scarpa, nell’introdurre la sezione antologica di Parola plurale, parlava di una «lacuna» ma, insieme, di una «pertinace fede» visiva). Un deficit che prelude, quasi superfluo ribadirlo, a quella “visione interna” che, almeno da Leopardi, trae alimento e stimolo proprio dall’ostacolo.

Così come non sorprende, però, che da un impedimento e da una mancanza si faccia poesia (tutta la tradizione lirica è, anzi, celebrazione della distanza e dell’assenza dell’oggetto di cui si poeta), è per un restringimento, più che un deficit, in questo caso, dello sguardo che si staccano, vivissime, una serie di tessere, di frammenti dalla materialità acutamente visualizzabile, in quella sorta di programmatico incipit (ekfrasis, si suppone, ma anche propriamente visione) di uno dei pezzi conclusivi di Pitture nere su carta, l’ultimo dei libri di Benedetti: «Elementi. Terra, / metalli, pietre preziose, fiori, veleni. / Anima. Mente, / memoria, oblio, pape, stupefazione. / Inferno».

Descrizioni di pezzi, di frantumi, ma non di scarti, bensì di sopravvivenze e resistenze, che dei pezzi e dei frantumi sorpassano l’aspetto residuale, alludendo, evocando, ricercando una figura superstite dell’intero, e ad essa rimandando con un procedimento lineare che attraverso i singoli “capitoli” conduce, col suggello del già ricorrente “Oh”, all’abdicazione definitiva della parola. È proprio in quest’ambivalenza che risiede la maggior forza e la miglior qualità di un libro maturo e importante, risolto anzitutto nei suoi singoli tratti, isolabili come tasselli di un tutto scomponibile, come è evidente da vertiginosi quadri quali «va vecchia la donna / con abiti sprovvisti per non tornare» (mentre, viceversa, alcuni tocchi di un’insistita e un po’ rigida plasticità si vorrebbero più coraggiosamente riempiti di altra vita e di senso ulteriore).

Ciò non esclude che il vero approdo possa allignare nel percorso tutto, nel collage compiuto, sebbene prodotto per così dire a rovescio, in levare: e a ogni verso l’apparire, anziché del quadro, di un nuovo squarcio. Non che se ne avverta davvero il bisogno, di un compiuto approdo, perché tra le tessere sparse le più coerenti e uniformi già rimandano all’incomponibile per eccellenza, offerto per via di negazione. Figura che prevale peraltro in tutta la prima parte, con la laica litania del «nessuno ti guarda »; «non ci sono labbra da toccare»; fino al “trionfo in no” che è il dittico inaugurale del terzo capitolo, dove «non una sola vita» è uno dei versi che chiudono il primo pezzo, mentre «Non un colore» apre il secondo: entrambi fortemente marcati dalla presenza materiale del «Nulla» al quale si sta insistentemente rinviando, e di cui è inevitabile controfigura la morte, allusa con stilemi leopardiani o montaliani, come del resto atteso in un poeta pienamente moderno.

Moderno perché il senso, a dispetto di quelle cifre interpretative su cui si può insistere, sfugge ma è continuamente cercato, quasi preteso: la metamorfosi vegetale di Colori 10, nel primo capitolo, ricalca un topos visitatissimo dalla poesia novecentesca, in cui dei morti si continuano a cercare le tracce nella sopravvivente animazione della materia (qui, come in Montale o in Sereni: «[…] dalle tue foglie viene la vita, / dalle foglie vedute nel muro che guardi»). Se la poesia di Benedetti è una poesia dipinta, e dipinta in quanto morta, può dunque rispondere al quesito finale del Decameron di Pasolini: «perché ci affanniamo a rappresentare la vita».

Quando la vita è leopardianamente mortale, dipingerla, sebbene nera e su carta, non può certo restituirle il senso che le manca, ma almeno, su quella mancanza, consente di continuare a interrogarsi: lo scacco che dovrebbe segnare una resa tout court, per la poesia moderna, e ne rimane invece la sua ragione più profonda, il fondamento della sua inesausta necessità.

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