traduzione di G. Cillario [Adelphi, Milano 2007]
Chi fugge – si dice – non si guarda indietro, ma chi fugge spesso si chiede cosa ne sia di chi rimane e cosa sarebbe successo se non fosse fuggito. Questo interrogativo si incarna nella voce narrante di Come le mosche d’autunno, Tat’jana Ivanovna. Si tratta di un racconto lungo, uscito per la prima volta in Francia nel 1931, e recentemente tradotto e pubblicato da Adelphi, nel quale Irène Némirovsky sceglie di ripercorrere l’esperienza autobiografica della fuga della sua famiglia dalla Russia, a causa della rivoluzione d’ottobre, attraverso lo sguardo della vecchia balia rimasta a vegliare sulla casa abbandonata dai signori Karin. Quest’ottica inattesa le consente di descrivere ciò che si è lasciata alle spalle e l’esperienza dello sradicamento con un punto di vista assai particolare: Tat’jana, infatti, pur appartenendo al mondo contadino è ormai legata in maniera viscerale a quello dei signori.
I Karin, dal capofamiglia al più giovane dei figli, hanno stretto con la balia un rapporto talmente intimo da renderle impossibile ogni adesione alla causa rivoluzionaria. Il suo sguardo e la sua voce, pur essendo al confine tra due mondi, sembrano potersi estraniare dalle vicende storiche, per concentrarsi solo su quelle familiari. Di una famiglia che, pur non essendo la sua, sembra essere l’unica che le rimanga. Questo vincolo inscindibile probabilmente fa sì che lo sguardo della nutrice non possa rimanere a lungo disgiunto dall’esistenza dei Karin. La narrazione, infatti, verso la metà del racconto non è più affidata alla guardiana della casa, ma nuovamente Tat’jana torna a vegliare sul destino della famiglia.
A segnare una netta cesura è la morte di Jurij Karin, giustiziato sotto gli occhi della nutrice da un contadino con il quale aveva condiviso l’infanzia. La balia ha dunque una duplice consegna da assolvere: riferire della morte del figlio e restituire ai Karin i diamanti che alla loro partenza aveva cucito nell’orlo della gonna, grazie ai quali diviene possibile la fuga dalla Russia a Parigi. Il mutamento della condizione dei Karin si riflette anche nello spazio in cui vivono, non più le vaste camere della casa russa, ma un angusto monolocale parigino: «L’appartamento era piccolo, buio, soffocante; odorava di polvere, di vecchie stoffe; i soffitti bassi sembravano pesare sulla testa» (p. 59). In questo spazio asfittico e claustrofobico la loro esistenza diviene paragonabile a quella delle «mosche in autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita» (p. 60).
L’oppressione fisica, causata dallo spaesamento, sembra annebbiare la lucidità dei membri della famiglia; l’unica a rimanere vigile testimone è Tat’jana. Anche lei vittima dello sradicamento, ma non per questo capace di abbandonarsi all’oblio. Dimenticare sembra impossibile per tutti i personaggi del racconto, ma solo la nutrice preserva la memoria di ciò che ha perduto: i grandi spazi russi, la neve, il freddo, assai diverso da quello parigino. Si spiega così, forse, anche il finale: l’immersione di Tat’jana nelle acque della Senna sembra alludere a un ricongiungimento con quel mondo gelido di cui custodiva ostinatamente il ricordo.
La memoria, del resto, costituisce uno dei tratti distintivi della penna della Némirovsky che in questo racconto, come nei suoi romanzi più riusciti – si pensi a David Golder o a Jezabel – trae ispirazione dall’esperienza autobiografica. Ciò che contraddistingue la sua scrittura è la capacità di partire dall’autobiografia e di attraversarla per alimentare le sue creazioni letterarie, conservando sempre uno sguardo lucido e distaccato. Così sceglie di filtrare una delle vicende centrali della sua esistenza, la fuga forzata dalla Russia, attraverso uno sguardo straniante e oggettivante che le consente di descrivere il trauma dello spaesamento senza nessuna sovrapposizione tra la voce autoriale e quella narrante.
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