Leggere «con ritardo / Lolita e Il gattopardo ̈, o anche più modestamente Troppi paradisi, produce nell’ultimo arrivato una curiosa deformazione percettiva: la messe di articoli e la divaricazione dei giudizi critici hanno trasformato il romanzo di Siti nel simbolo-sintomo di qualcosa di più ampio, sino a rendere quasi impossibile un discorso che non tenga conto della straordinaria accoglienza riservatagli. Alla verifica del testo, il tono acceso dei consensi e delle ripulse finisce però per non stupire, dal momento che Troppi paradisi si presenta come un libro che si prende enormemente sul serio (e che pertanto vuole essere preso sul serio), appositamente concepito affinché anche i lettori più disattenti si convincano subito che, riuscita o non riuscita, quella che hanno dinnanzi agli occhi è un’opera con la quale occorrerà comunque fare i conti.
Con Troppi paradisi Walter Siti ha finalmente ottenuto quel consenso quasi universale della critica che meritava fin dai tempi di Scuola di nudo. La sua opera d’esordio aveva certo potuto contare sull’ammirazione appassionata di una cerchia ristretta ma che sarebbe sbagliato definire d’élite: le élites contano, e impongono il loro giudizio, mentre Scuola di nudo era passato come una meteora nel cielo di una narrativa italiana degli anni Novanta con cui aveva assai poco a che spartire. I nomi che venivano in mente, a chi voleva cercargli degli equivalenti, erano piuttosto la Morante di Aracoeli e il Pasolini di Petrolio. Un corpo estraneo per dimensioni, ambizioni, appartenenza d’elezione a quella che una volta si sarebbe chiamata una “civiltà letteraria” di tutt’altra natura, obbediente ad altri cerimoniali e ad altre modalità d’esistenza rispetto a quelle che si erano venute imponendo in Italia dalla fine degli anni Settanta in poi. Apprezzare non distrattamente Scuola di nudo comportava una presa di posizione – e di distanza – rispetto all’attualità; magari col senso di colpa di preferire il buon vecchio al cattivo nuovo, ma questo è un altro discorso. Non perché non si comprendessero le buone ragioni, i nessi di interdipendenza tra forma e Storia che portavano altri, praticamente tutti gli altri, a fare scelte diverse, tanto più in un’epoca in cui era definitivamente caduta, come ha scritto Berardinelli qualche anno fa, la convinzione tipicamente moderna che l’assetto presente del mondo permette di scrivere solo in un dato modo.
C’è chi ne dubita, ma io credo che Siti sia uno dei maggiori romanzieri contemporanei. Gli si imputano eccesso di intellettualismo, egocentrismo, qualche incertezza nella costruzione narrativa; e si dimentica che il romanzo di impostazione saggistica è oggi una delle forme più necessarie, che l’idolatria di sé, giocata come la gioca Siti, è una figura della contemporaneità, che narrare “al tempo della fine dell’esperienza” significa obbligatoriamente barare. Siti, si dice, sarebbe danneggiato dalla sua intelligenza e dal suo essere professore. E invece, lasciato da parte il mito del narratore spontaneo, che produce racconti come respira, Siti spende il proprio ruolo intellettuale senza veli ipocriti (al contrario di molti suoi colleghi che si improvvisano romanzieri, e riescono tanto più professorali quanto più cercano di nascondere il loro peccato di origine); anzi, rincarando la dose.
Terzo romanzo, dopo Scuola di nudo (1994) e Un dolore normale (1999), Troppi paradisi (2006) dichiara subito, nell’Avvertenza premessa al testo, il «quesito» che regge la «trilogia»: «se l’autobiografia sia ancora possibile, al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot». Non ci voleva certo Walter Siti per nominare il fenomeno di progressiva confusione tra realtà e fiction già fissato da Debord e poi ridiscusso da Baudrillard; e tuttavia è un fatto che praticamente nessun romanzo italiano contemporaneo ancora aveva cercato di mettere al centro del racconto questa cultura del desiderio in cui la rappresentazione ha sostituito le cose, riducendo la vita a simulacro, precisamente come quel casolare di San Galgano usato per la pubblicità del Mulino Bianco e restaurato soltanto nel corpo di edificio inquadrato dalla telecamera.
Il primo aspetto che colpisce del libro di Federico Bertoni, Realismo e letteratura, è il programmatico rifiuto di assumere una posizione teorica netta e definita, protesa alla costruzione di una tesi, più o meno complessa, da cui comunque ricavare una definizione di “realismo” succinta e sintetica. Scrive Bertoni nella Premessa:
Comunque lo si guardi, il territorio del realismo appare infatti talmente vasto e multiforme, talmente costellato di ostacoli e trabocchetti che qualunque tentativo di ‘fare il punto’ sembrerebbe destinato a un fallimento preventivo.
È proprio per sfuggire a questo destino che ho evitato accuratamente di ricondurre le molte domande che mi sono posto a una risposta ultimativa. È per questo che ho tentato di scongiurare le prospettive totalizzanti, i dogmatismi teorici, le semplificazioni storiografiche. E ho accettato il rischio di trovarmi tra le mani, alla fine, un libro che non è una teoria generale né una storia sistematica del realismo. (p. VII)
Avere scritto un libro di quasi quattrocento pagine su Realismo e letteratura; averlo pubblicato nel gennaio del 2007, dopo vari decenni di scettica condiscendenza – se non di ostracismo e irrisione – nei confronti di una categoria con ogni probabilità abusata, un tempo, da certa critica di sinistra; teoricamente (non c’è dubbio) ambigua, sfuggente, aporetica; ma con ogni evidenza ineludibile per ogni lettore, e studioso, in buona fede. Basterebbe questo titolo di merito a segnalare Federico Bertoni (nato nel 1970), professore di Teoria della letteratura a Bologna, come uno dei critici più importanti della sua generazione. E forse anche, c’è da augurarselo, a rilanciare una collana, la gloriosa PBE letteraria, un tempo – neanche tanto lontano – prestigiosa vetrina del migliore dibattito critico italiano e internazionale, oggi ridotta ad ospitare pochi manuali (non sempre di livello decoroso) e rari saggi (di qualità oscillante).
Nell’avvicinare un libro dalle prospettive così ampie, credo sia opportuno andare per ordine, e tentare di affrontare le questioni centrali cominciando semplicemente (banalmente) dalla Premessa, dove l’autore fa qualche dichiarazione programmatica sull’impianto complessivo del libro.
Innanzitutto, scrive Bertoni, questo libro non è né una «teoria generale», né una «storia sistematica» del realismo; non potrebbe esserlo, d’altra parte, senza dovere ricorrere a scorciatoie o a definizioni inevitabilmente generiche: oggetto del libro è semmai – sono sempre parole dell’autore – «un’inquieta riflessione sulla letteratura» e sul suo «ambiguo, paradossale rapporto» con ciò che chiamiamo realtà. Poi Bertoni resta fedele all’assunto: si interessa proprio di quello che mi pare sia il punto fondamentale di interesse, il «rapporto» tra il mondo della finzione e il luogo in cui sembra avere origine, il cosiddetto mondo della realtà.
«La mafia non è un’estranea in questo mondo: ci si trova perfettamente a suo agio. Nell’epoca dello spettacolare integrato, essa appare di fatto come il modello di tutte le imprese commerciali avanzate». Quest’intuizione di Debord (Commentari sulla società dello spettacolo, in La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 233) potrebbe costituire la migliore esegesi di Gomorra, la straordinaria opera prima di Saviano. Il quale dà conto del suo Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra (così recita il sottotitolo del libro) precisando che non si è trattato, per lui, di attraversare province, come quelle napoletana e casertana, consegnate all’illegalità per poi tornare in luoghi in cui viga la legalità: che, insomma, egli non ha fatto esperienza della tragica eccezione a una consolante norma di civiltà per il resto ovunque diffusa. Come già per i narratori della modernità letteraria nazionale, anche per Saviano il Mezzogiorno è anzitutto la cartina di tornasole del degrado italiano. Ma, per il lettore che fermi il proprio sguardo in Gomorra come dentro un cannocchiale, la prospettiva si allarga immediatamente perché, se il Meridione è l’emblema di quel particolare Paese che, in linea con quanto avveniva nel secondo Novecento, costituisce ancora un inglorioso e tuttavia avanzato laboratorio per la politica occidentale (il berlusconismo e il neonato veltronismo lo dimostrano), appare inevitabile che Casal di Principe sia l’Occidente: che somigli al suo presente, che lasci intravedere il suo futuro.
Gomorra di Roberto Saviano è in realtà due libri. Innanzitutto l’inchiesta, il reportage, la ricostruzione per successive tappe e nei diversi ambiti (il contrabbando, il traffico di droga, la contraffazione dei manufatti, le imprese del cemento, lo smaltimento dei rifiuti) dell’ascesa e del dominio pressoché incontrastato del cosiddetto Sistema: l’impero economico della camorra che da Napoli e dintorni è arrivato a toccare gli anfratti più impensati dei continenti, in un’agghiacciante versione criminosa del “villaggio globale”. Malgrado l’attenzione documentaria venga, infatti, primariamente rivolta al resoconto delle dinamiche complessive e dei singoli episodi della eterna faida tra i clan locali (col dettaglio di quella, a dir poco efferata, tra le cosche secondiglianesi, che occupa un intero capitolo, il quarto, oltre ai frequenti richiami nei successivi), a emergere con chiarezza da questo primo libro è che il suo autore legge il mondo, per dirla così, sub specie camorrae. Tutto è male, perché tutto è camorra: questa la testimonianza, cui conseguono i tanti dati documentari, sparsi nella vera e propria cronaca di una guerra. Quindi soprattutto il computo dei «morti ammazzati», a partire dall’anno di nascita dell’autore: «Inizio la conta: nel 1979 cento morti, nel 1980 centoquaranta, nel 1981 centodieci […] nel 2004 centoquarantadue, nel 2005 novanta».
Gomorra di Roberto Saviano è l’evento letterario più clamoroso degli ultimi due anni: anche per fattori esterni al testo (l’autore è stato condannato a morte dalla camorra e vive sotto scorta), ma sicuramente non soltanto per questi. È accaduto poche volte, in Italia, che un’opera letteraria avesse una simile forza d’impatto. Se vogliamo trovare dei precedenti, dobbiamo percorrere all’indietro alcuni decenni della nostra storia letteraria e riferirci a due esempi illustri, divenuti dei classici della letteratura del secondo Novecento: Se questo è un uomo di Primo Levi (fu presentato alla casa editrice Einaudi e da questa rifiutato; pubblicato da una casa editrice minore nel ’47 e finalmente accolto da Einaudi, e lanciato con il successo che sappiamo, solo nel ’58), e Lettere luterane di Pasolini. In comune con questi due libri, Gomorra ha la difficile classificabilità per quanto riguarda il genere letterario, e soprattutto l’argomento: l’incontro con una realtà totalitaria che distrugge, insieme alla civiltà, l’individuo.
In tempi recenti si è affermata la tendenza a dividere il sistema letteratura in due super-generi: fiction e non-fiction. Il fenomeno è talmente macroscopico che non credo ci sia bisogno di portarne delle prove. Se ne trovano dappertutto: nel linguaggio corrente della promozione libraria, nelle pagine culturali, nei saggi critici, persino nelle dichiarazioni di scrittori. Questa partizione in due super-generi, che non si dà da sempre, ed è stata chiaramente “prodotta”, è forse una delle semplificazioni più barbare che si siano fatte in questi anni nel campo del pensiero e dell’invenzione. Si tratta di una distinzione categoriale che non reggerebbe a una breve disamina filosofica, ma che tuttavia, pur traballante, agisce per penetrazione quantitativa e per formazione di luoghi comuni. L’industria internazionale del libro può trovare una facilitazione nello smistare i prodotti in questi due grandi scatoloni, ma per il pensiero che si esprime attraverso le molteplici forme della scrittura, può risultare una pratica assai repressiva: pretendere che i libri stiano pacificamente dentro a queste due gabbie adiacenti in effetti assomiglia molto a una misura di “polizia”.
Nella monografia dedicata a Robert Altman De Bernardinis definisce l’anti-hollywoodiano di Kansas City come il cineasta che più di ogni altro ha fatto fruttare metodologicamente la natura allegorica del mezzo cinematografico; dove l’allegoria è intesa, in un’accezione novecentesca, come pratica operativa di ri-scrittura della realtà e non semplicemente come figura retorica. In questo senso, Short Cuts (America oggi, 1993) è un film allegorico per eccellenza: nel momento in cui denuncia l’impossibilità di narrare l’oggi, in un mondo assediato dal culto della serialità, compone un’epopea della società d’America contemporanea. Attraverso i frantumi di vita (tagliati, scorciati, rimontati) di venti personaggi, antieroi del moderno che, guidati dal caso, si sfiorano e s’incrociano in una quotidianità priva di senso, il regista dà vita ad un affresco amaro dell’umanità del ventesimo secolo, inabissata in una bolgia di violenza e alienazione.
L’operazione che Robert Altman conduce sui racconti di Carver è esattamente quella dichiarata dal titolo del film: Short Cuts, «piccoli tagli», tagli di sbieco come quelli che dividono le lettere del titolo stesso prima che si uniscano sullo schermo, prendendo forma in parole e denunciando anche visivamente il gioco di taglia-incolla compiuto sul testo letterario. Altman ritaglia brani di racconti – non necessariamente racconti interi – e poi li assembla a formare un unico grande quadro dove i personaggi delle singole storie si incrociano tutti, pur senza mai conoscersi veramente. Così, il medico di A Small, Good Thing, che cura inutilmente il bambino investito da un’auto, diventa Ralph Wyman, sempre medico ma protagonista di un altro racconto di Carver, Will You Please Be Quiet, Please?, una delle migliori short stories dedicate dallo scrittore americano al tema del tradimento, e del rapporto tra verità e menzogna.
Definire l’essenza di un regista eretico a se stesso come Robert Altman è impresa tutt’altro che facile. C’è da supporre che, se una vera eredità egli abbia lasciato ai cineasti della generazione successiva, la cosiddetta “VCR Generation”, questa eredità consista, più che in un’impronta stilistica propriamente detta, in un’opzione etica: la necessità di liberare lo sguardo; di sfrondarlo da teoremi e punti di vista determinati (dei personaggi come dell’occhio narrante), per farlo piombare nell’abisso fenomenologico dagli orizzonti appannati di un mondo senza eroi; dove uomini, segnati dalle agrodolci stimmate dell’ordinario, vengono straordinariamente definiti dalla paradossalità degli eventi, e non viceversa.
Con Le Benevole Jonathan Littell, che come la maggior parte di noi allora non c’era, entra nel “buco nero” del nazismo assumendo la sfida di calarsi nell’umanità dei carnefici, non delle vittime. Nei panni del protagonistanarratore Maximilien Aue, divenuto ufficiale delle SS per caso, sterminatore di ebrei, matricida e pluriomicida, si rivolge ai lettori, accomodati in una rassicurante ipocrisia, per scuoterli dal torpore e indurli a interrogarsi alla luce della coscienza inquieta di chi è stato un «volontario carnefice di Hitler». Attraverso la sapienza di sé e della storia, il personaggio inventato da Littell promette una parola nuova per comprendere l’insolubile dilemma etico dell’adesione da parte di tanti tedeschi ed europei al programma nazista. Ma la verità storica è forzata artisticamente, al fine di indagare in senso assoluto, direi filosofico e metastorico, il “Male” incarnato dal nazismo. Allora è necessario non lasciarsi sedurre da una scrittura potente e persino scaltra per verificare se, alla resa dei conti, queste due prospettive riescano davvero a coesistere, producendo un esito convincente.
Sono due gli echi che risuonano nell’incipit delle Benevole di Jonathan Littell: quello della Ballade des pendus di François Villon e quello di un altro ben noto attacco, Au Lecteur, che apre con un diabolico patto tra lettore e autore Les Fleurs du Mal. Se il vocativo «Fratelli umani» della Ballata chiede pietà per i morti (ma Aue, voce narrante, non lo è ancora), il richiamo a Baudelaire impone il riconoscimento della somiglianza tra chi racconta e chi legge, necessario per addentrarsi in un viaggio che destruttura la comune fenomenologia del male. Allora, più che un patto, quella tra Maximilien Aue e il suo lettore diventa una morsa ferale, nella quale “umano” è un aggettivo che smette di essere sinonimo di «generoso, comprensivo, caritatevole, benefico, pietoso» (Sinonimi e contrari, Zanichelli), e diventa un campo conflittuale di possibilità, assai simile al senso ambiguo e inafferrabile dell’aggettivo deinós, che nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle designa l’uomo come la più spaventosa delle creature.
Nelle Benevole ci sono molte pagine di troppo; la dialettica fra i piani di cui l’opera si compone (il realismo documentario, l’allegoria, la narrazione onirico-visionaria) non sempre si risolve bene. Certi snodi narrativi, soprattutto nel finale, sono bizzarri o frettolosi; episodi come la storia di Clemens e Weser, o la scena in cui Maximilien Aue morde il naso di Hitler, paiono fuori registro o fuori luogo. Secondo alcuni storici del nazismo, le parti documentarie del romanzo somigliano talvolta a un quaderno di appunti o a una scheda di lettura. Si tratta di un libro eccessivo e imperfetto. Eppure, nonostante le cadute, o forse proprio a causa di questa dépense creativa e priva di misura, l’opera di Littell è il romanzo più importante uscito in Europa nei primi anni del XXI secolo. Lo è per il tema che affronta e per la maniera in cui lo affronta: perché narra, in modo nuovo e illuminante, il trauma centrale della storia novecentesca; e perché lo fa usando, in modo nuovo e illuminante, i mezzi conoscitivi del romanzo. Le recensioni si sono concentrate sui temi manifesti (l’autobiografia di un nazista, lo sterminio degli ebrei d’Europa); io vorrei riflettere sull’immagine del mondo che il romanzo comunica partendo dai contenuti latenti, quelli sedimentati nella forma.
Partire dalla soglia: dalla vista e dal tatto. Provare a mimare il fisico accostamento a una novità editoriale: perché il libro in questione – Le Benevole di Jonathan Littell – è una novità vistosissima e ingombrante: «il caso letterario dell’anno» (ma stavolta il cliché buca la crosta della ripetizione e il battesimo torna a essere autentico).
Il caso letterario dell’anno esplode in Francia, al Prix Goncourt; per l’Italia è Einaudi che lo traduce con tempestività, confezionando uno spesso mattone – novecentoquarantatre pagine – dentro un’attraente fodera di lucido rosso. Rosso non uniforme, ma perforato da tagli, da due file di squarci verticali e paralleli. Sono i tagli di Lucio Fontana (Concetto spaziale. Attese, idropittura su tela, 1965) quelli che attraversano la copertina, facendone molto più di un richiamo-reclamo proferito dagli scaffali. Le Benevole può iniziare già qui: da questa infiammata sovraccoperta – non pellicola caduca, ma fulmineo e potentissimo commento al libro: al velo che questo osa strappare; alle ferite che riesce ad aprire.
Le Eumenidi rimpiazzano i testimoni. Les Bienveillantes ha già questo di notevole, prima ancora che l’eventuale merito letterario: per la data di nascita di Jonathan Littell, per la sua estraneità familiare alla tragedia della Shoah, per la tempistica del suo successo in Francia e nel mondo, questo caso editoriale segna la fine di quella che proprio da un’intellettuale francese era stata definita – appena dieci anni fa – «l’èra del testimone ». Cioè l’èra della vittima sopravvissuta e non più trascurata, come nel primo quindicennio dopo il 1945, non più convocata a meri fini giudiziari, come nel quarto di secolo intercorso fra il processo Eichmann e il processo Barbie, ma la vittima (se così si può dire) trionfante, sollecitata a testimoniare da un’intera società, gettonata come una rugosa star del dolore.
Le Benevole è un romanzo di lavoro. Immerge il lettore nel vissuto quotidiano di una grande burocrazia, mostra come vi si generino efficienze e inefficienze, quali impulsi, radicati nelle ambizioni private e nel gioco di compromessi tra discrasie istituzionali, contribuiscano o intralcino la messa in opera di un progetto politico.
Ci si può chiedere – come fa il narratore a circa due terzi della propria impresa – «a che pro raccontare giorno per giorno tutti questi particolari? […] Quante pagine ho già accumulato su queste peripezie burocratiche prive di interesse?» (p. 753). Sembrerebbe una domanda retorica, dato che il lettore, se è giunto a quel punto del romanzo, non può aver trovato le pagine precedenti completamente «prive di interesse». È invece una questione sostanziale.
Quando, nel 1961, Hannah Arendt pubblica la raccolta di saggi Tra passato e futuro, altro non fa che proseguire il discorso iniziato dieci anni prima con Le origini del totalitarismo e dimostrarne l’attualità. Nel suo capolavoro aveva infatti spiegato come il totalitarismo sia stato l’esito delle aporie della modernità. È dai limiti, concettuali e giuridici, dello Stato-nazione ottocentesco; è dal logorio dei paradigmi di sapere elaborati tra XVIII e XIX secolo; è dalla conseguente atomizzazione di una società in cui ogni individuo diventa l’anonimo componente di una massa standardizzata e amorfa, che esso a suo avviso prende corpo, determinando una frattura storica epocale: almeno in Occidente, i regimi totalitari esauriscono l’intera tradizione politico-culturale precedente, aprendo un’ancora indefinibile fase nuova. La crisi dell’autorità e dell’agire, della libertà e della famiglia, della cultura e dell’istruzione che, nel volume successivo, la Arendt scorge in tutte le democrazie occidentali, Stati Uniti compresi, e che implicitamente invita a monitorare, temendo possa favorire, anche nel Paese in cui dal 1941 vive, forme “morbide” di totalitarismo, discende appunto da questa traumatica interruzione della continuità sia storica sia culturale.
La Société du Spectacle di Guy Ernst Debord (1931-1994) è stato pubblicato per la prima volta nel novembre 1967, a Parigi, presso l’editore Buchet-Castel. Ha conosciuto un’immediata fortuna internazionale sull’onda del movimento del 1968, con ristampe in Francia (nel 1971 presso Champ Libre, poi denominato Gérard Lebovici in seguito all’assassinio dell’editore nel 1984) e traduzioni in un decina di paesi. In Italia la prima traduzione presso De Donato, nel 1968, è stata apertamente sconfessata dall’autore che ha definito “eccellente” solo la quarta edizione italiana, curata da Paolo Salvadori per l’editrice Vallecchi. La traduzione di Salvadori è stata riproposta da Sugarco che, nel 1990, ha pubblicato in un unico volume sia l’opera del 1967 che i Commentari sulla società dello spettacolo, scritti da Debord nel 1988. Varie versioni del libro si trovano oggi in rete, senza diritti d’autore o di edizione, giacché i situazionisti rifiutavano il copyright, ma non coerenti con le prese di posizione dell’autore nei confronti delle cattive traduzioni e con la sua sensibilità “filologica” nei confronti dei guasti indotti dalla serialità del lavoro intellettuale.
Poco rimane, salvo presso qualche nostalgico incallito, del movimento denominato “Internazionale Situazionista”, che fiorì (se così si può dire) in Francia tra gli anni Sessanta e Settanta e si diramò in vari paesi, tra cui l’Italia. Le utopie artistico-rivoluzionarie estreme di quella «bande de jeunes révoltés, bohèmes, désoeuvrés et utopistes» (come li definisce uno storico non certo avverso) hanno lasciato tenui tracce, e i loro numerosi scritti sono ormai quasi solo roba da eruditi. Tra le poche pepite che ancora se ne conservino, qualcuna si trova in certe pagine di Guy Debord, uno dei protagonisti. Sebbene richiedano una certa fatica a chi voglia ripescarle entro il tomo-mattone della serie «Quarto» di Gallimard che contiene le sue opere complete (complete davvero! includono manifesti, “inscriptions”, fotografie, ecc.), le sue intuizioni continuano a lanciare una secca luce radente sulla fase ultima della modernità – quella nelle cui acque oggi navighiamo e di cui Debord intercettò il momento nascente.
Opera antiepica, Vita e destino è un romanzo corale che celebra il tragico assedio di Stalingrado come solo momento di autentica vita durante il regime stalinista. L’autore denuncia lo sterminio nazista in Europa orientale e con maggiore coraggio il clima di delazione e di violenza in Urss. La catastrofe morale del protagonista e la fine della libertà respirata durante i mesi dell’avanzata tedesca coincidono con una vittoria che viene rappresentata comunque come necessaria.
Life and Fate is an anti-epic work and a choral novel, which celebrates the tragic siege of Stalingrad as the only moment of authentic life during the Stalinism. The author condemns the Nazi extermination in Eastern Europe and, more bravely, the climate of delation and violence in the USSR. The moral disaster of the protagonist and the end of the freedom breathed during the months of the German advance coincide with a victory, that is represented however as necessary.
Questo articolo si propone di rileggere Vita e destino alla luce della più recente ricerca sulla storia dell’Europa centro-orientale nel XX secolo, cercando di dimostrare l’importanza di Vasilij Grossman per una nuova comprensione del totalitarismo e della Shoah. L’opera del romanziere ucraino ebreo, irriducibile alle memorie pubbliche dominanti della Seconda guerra mondiale, spinge gli storici ad una riflessione radicale sul senso della guerra tra Hitler e Stalin nell’esperienza storica europea, attraverso la prospettiva insieme eccentrica e rivelatrice della battaglia di Stalingrado.
This article aims to read Life and Destiny through the perspective of the most recent inquiries into the twentieth century’s history of Central and Eastern Europe, trying to demonstrate the importance of Vasilij Grossman for a new understanding of the totalitarianism and the Shoah. The Jewish Ukrainian writer’s work, which can’t be reduced to the prevailing public memories of the Second World War, draws the historians to a radical reflection about the meaning of the war between Hitler and Stalin in the European historical experience, through the eccentric and revealing perspective of the battle of Stalingrad.
Anna De Biasio legge A New Literary History of America come estrema emanazione della galassia culturalista, da decenni egemone nell’accademia statunitense. Attraverso un confronto con due recenti Storie della letteratura americana, e in particolare con il paradigma neostoricista, si mettono in luce gli elementi di novità e i limiti di un’operazione storiografica che radicalizza principi come la pluralizzazione degli oggetti di studio e la discontinuità nel loro trattamento, convalidando la fine di ogni tradizionale nozione di “letteratura”.
Anna De Biasio reads A New Literary History of America as an offshoot of the culturalist formation, which holds a hegemonic position in US academia. Through a comparison with two recent Histories of American literature, and especially with the neo-historicist paradigm, the novelties and limits are highlighted of a historiographic venture that radicalizes principles such as the pluralization of the objects of study and the discontinuity of their treatment, confirming the end of all traditional understanding of the “literary”.
• Il testo viene esaminato attraverso una serie di parole chiave (Madre, Padre, Bambino, Dio e i suoi Profeti, Sogni, Umanità, Natura, Cibo e Utensili, Ricordi, Salmerini) che declinano una sorta di Nuova Apocalisse, in cui, venuta meno ogni civiltà, fragile ed incerta come una fiaccola sempre in procinto di spegnersi è la possibilità di salvezza affidata a un Agnello-bambino.
• The text is examined in the light of a series of key words (Mother, Father, Child, God and his Prophets, Dreams, Mankind, Nature, Food and Tools, Memories, Chars). They decline a kind of New Apocalypse whereby all civilization, always as frail and fitful as a torch at the point of extinction, is failing, and the possibility of salvation is entrusted to a Lamb-Child.
• La strada non è un romanzo, ma ha il ritmo di un poemetto epico-lirico diviso in brevi lasse. I due protagonisti non hanno storia né evoluzione, e la trama non è costruita sulla logica dello sviluppo narrativo, ma su quella della ripetizione. Il significato dell’opera risiede nella relazione tra padre e figlio e nell’accordo generazionale necessario per salvare la possibilità di una civiltà dalla catastrofe imminente. Nell’èra della morte di Dio e della fine delle ideologie, il libro lascia al lettore una speranza residuale e, perciò, tanto più preziosa.
• The Road is not a novel: firstly, it has the rhythm of an epic-lyric poemetto, which is divided into short laisses and in which the language has a poetic function; secondly, the two protagonists have neither a story nor a development; finally, the plot is built on the logic of repetition. The meaning of the book is to be found in the relationship between father and son and in the pact between generations, which is necessary to save the possibility of a civilization from the looming catastrophe. In the age of God’s death and of the end of ideologies, the book leaves the reader a residual hope, which is, for this reason, much more precious.
«Dateci un luogo e una data, e solleveremo la storia della letteratura…» (Introduzione, vol. I, p. XX). In questo motto, semiserio e ambizioso, si potrebbero riassumere il programma, i presupposti di metodo e soprattutto lo spirito dell’impresa editoriale guidata da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà. La formula rivela da un lato la fiducia in un metodo e nella sua applicabilità a una serie vastissima di oggetti e situazioni, dall’altro la convinzione che i risultati acquisiti per questa via non possano che essere sorprendenti e innovativi: quella tra «critica letteraria», storia e geografia (p. XV), con l’ultimo elemento in posizione fortemente rilevata, sarebbe l’alleanza più efficace per rianimare un sapere in crisi come la storia della letteratura.
L’Atlante della letteratura italiana è un’opera ambiziosa, a partire dalle sue caratteristiche materiali. L’articolazione in più volumi, il formato e la mole, il costo, la sontuosa veste editoriale e il titolo ne svelano immediatamente l’obiettivo, ovvero quello di imporsi come insostituibile strumento di lavoro sugli scaffali a libera consultazione di ogni biblioteca che si rispetti. Il marchio Einaudi – inutile negarlo – fa il resto.
Ho letto dalla prima all’ultima pagina il terzo volume dell’Atlante: un viaggio memorabile, che consiglio a chiunque sia interessato alla storia della cultura italiana. Il risultato fondamentale, di importanza storica ai miei occhi, è il lavoro di mappatura. È vero che l’attenzione alla geografia culturale non è una novità: si iscrive in una pista di ricerca che Einaudi ha contribuito in modo decisivo a promuovere, con la Geografia e storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti, i lavori di Enrico Castelnuovo sulla geografia artistica, il terzo volume del Romanzo diretto da Franco Moretti, e molte altre opere.
Il 3 dicembre 1315 la popolazione di Padova ebbe il privilegio di osservare uno spettacolo fuori dell’ordinario. Albertino Mussato, il primo poeta “laureato” dell’Europa occidentale dai tempi antichi, venne portato in trionfo per le strade della città a seguito di una lettura pubblica dell’Ecerinis. Esattamente negli stessi anni, un poeta esule e che non fu mai incoronato, nella speranza di condividere quell’onore supremo, invocava Apollo e tutte le Muse per concludere la propria trilogia: «O buono Appollo, a l’ultimo lavoro | fammi del tuo valor sì fatto vaso, | come dimandi a dar l’amato alloro» (Par. I, 13-15).
Nonostante sia stato generalmente letto in chiave autobiografica, credo che La città degli angeli risulti meglio comprensibile se lo si considera un’opera di finzione a tutti gli effetti. L’avvertenza con cui si apre l’edizione tedesca (ma non quella italiana) non è di circostanza: «Tutti i personaggi di questo libro, a eccezione delle personalità storiche citate per nome, sono invenzioni della narratrice. Nessuno è identico a una persona vivente o morta. Tantomeno gli episodi descritti corrispondono a eventi realmente accaduti». Aggiungerei: tantomeno l’io narrante e l’io narrato, il personaggio Christa Wolf (di cui peraltro nel testo non compare mai il nome), sono identici alla scrittrice Christa Wolf.
Il 27 settembre del 1990, a pochi giorni dal 3 ottobre, data fissata per sancire la riunificazione della Repubblica Federale Tedesca e della Repubblica Democratica Tedesca, Christa Wolf scrive: «Questo non è un anno qualsiasi, è l’anno della svolta [das Wendejahr]». Così si legge in Un giorno all’anno, il libro in cui la scrittrice ha raccolto tutte le pagine dei suoi diari datate 27 settembre, dal 1960 fino al 2000. L’idea alla base di questo progetto, spiegato limpidamente nelle prime pagine del libro, è quella di provare a rendere parte integrante della scrittura ciò che normalmente ne sarebbe escluso: il banale, il quotidiano, il transitorio che in ogni vita si disperde continuamente…
• Orientalismo è certo l’opera di Said che ha avuto la ricezione più dirompente, ma per comprenderne pienamente il valore e la componente ancora viva nell’attuale discorso critico è necessario collocare il saggio nella “carriera” del suo autore, guardando retrospettivamente da Umanesimo e critica democratica (2004) l’articolato percorso che ha le sue tappe maggiori in Beginnings (1975), The World, the Text, and the Critic (1983), Cultura e imperialismo (1993), e Orientalismo stesso.
• Orientalism is surely the most influent among Said’s works, but in order to fully understand its value, and what in its lesson may be still alive, it is necessary to place the book in the “career” of his author, by looking retrospectively from Humanism and Democratic Criticism (2004) to his complex intellectual journey, which has among its milestones Beginnings (1975) The World, the Text, and the Critic (1983), Culture and Imperialism (1993) and obviously Orientalism (1978) itself.
Nei giorni in cui La grande bellezza usciva nelle sale italiane, durante i vari tour promozionali per televisioni, redazioni di giornali e punti vendita Feltrinelli, Paolo Sorrentino confessava il proprio stupore di fronte alle reazioni contrastanti della critica. «Quando girai Il Divo pensavo che si scatenasse il pandemonio, invece non è successo nulla. Ho girato questo, e inaspettatamente è arrivato il pandemonio». Eppure non ci sarebbe da meravigliarsi. In Italia siamo assai più pacificati col fantasma di Andreotti che con quello della bellezza, figura mitica, missione e ossessione nazionale che accende gli animi e fa vibrare corde profonde.
La grande bellezza di Paolo Sorrentino rappresenta il ritrarsi della grande bellezza. La bellezza si ritrae – fatalmente – da tutto: dall’arte contemporanea (irrisa in due performance estreme), dalla spiritualità (incarnata da un cardinale appassionato solo di ricette e da una mistica sdentata che dice frasi pseudo-profonde), dalla ispirazione letteraria del protagonista Jep Gambardella (autore di un solo libro e ossessionato dalla manutenzione del corpo), dal viso di chi si rivolge a un chirurgo plastico un po’ cialtrone, da Roma e dall’Italia, dalla vita contemporanea…
1. Il 21 maggio 2013 viene presentato al Festival di Cannes La grande bellezza di Paolo Sorrentino, unico film italiano in competizione. È la prima proiezione, quella per la stampa. Il film viene accolto con nove minuti di applausi. Il giudizio di gran parte della critica internazionale è buono, con eccezione della stampa francese. «Le Monde» e «Positif» bocciano il film, senza neppure vederlo.
A chi la interroghi sul suo mestiere di scrivere, Alice Munro puntualmente risponde: «Non volevo diventare una scrittrice di racconti. Ho ini ziato a scriverli perché non avevo tempo di scrivere nient’altro – avevo tre figli». Mentre i bambini dormono, prima di accendere il forno, in vece di asciugare i bicchieri: è durante questi momenti avanzati dal quotidiano – o rubati al quotidiano – che Alice Munro compone i suoi primi racconti. Così le ci vogliono quasi vent’anni per mettere insieme le storie della sua prima raccolta (Dance of the Happy Shades, ‘La danza delle ombre felici’, pubblicata nel 1968). Ne sono seguite altre tredici (qualche esempio tra le più note tradotte in Italia: The Moons of Jupiter, del 1982; The Love of a Good Woman, del 1998; Runaway, del 2004; Too Much Happiness, del 2009), premiate da un crescente successo di pubblico e di critica – e ora pure dal Nobel.
In un’intervista che compare alla fine della raccolta The Love of a Good Woman, Alice Munro, a proposito delle potenzialità creative della forma breve rispetto alla long prose, afferma:
I seem to turn out stories that violate the discipline of the short story form and don’t obey the rules of progression for novels. I don’t think about a particular form, I think more about fiction, let’s say a chunk of fiction. What do I want to do? I want to tell a story, in the old-fashioned way – what happens to somebody – but I want that “what happens” to be delivered with quite a bit of interruption, turnarounds, and strangeness. I want the reader to feel something is astonishing – not the “what happens” but the way everything happens. These long short story fictions do that best, for me.
L’unico riassunto adeguato di un racconto di Alice Munro, come ha scritto Jonathan Franzen, è il testo stesso. Per rendere giustizia al lavoro della scrittura bisognerebbe ripetere tutto, perché soltanto così risolveremmo il segreto di un’opera che, in un certo senso, e come è già stato osservato, sembra raccontarci sempre la stessa storia, ma riuscendo ogni volta a interessare i lettori. Basta riprendere, per cominciare da alcuni esempi, il primo e l’ultimo racconto tra i cinquantacinque testi contenuti nell’antologia curata da Marisa Caramella per i Meridiani, vale a dire Il cowboy della Walker Brothers, tratto dalla prima raccolta Danza delle ombre felici (Dance of the Happy Shades, 1968), e Uscirne vivi, dal libro omonimo (Dear Life, 2012).
Forse nessuna scrittura è più riconoscibile e al contempo più elusiva di quella di Alice Munro. Open Secrets, titolo di un racconto e della raccolta eponima, esprime efficacemente attraverso un ossimoro l’ambiguità tra privato e pubblico, conoscibile e inconoscibile, detto e non detto che caratterizza la sua opera. Ancora prima che la giuria del premio Nobel nel 2013 la proclamasse «maestra del racconto contemporaneo», proiettandola in una dimensione internazionale e alimentando l’interesse critico, decine di libri e centinaia gli articoli hanno indagato la sua opera e cercato di identificare i meccanismi raffinati che ne costituiscono la cifra stilistica, la complessità dietro la semplicità, la sperimentazione sottile dietro il realismo tradizionale, gli esiti altamente innovativi della forma racconto.
Nei Sommersi e i salvati, Primo Levi prende la parola non più come testimone che parla a chi non sa, ma come autore che si rivolge anche a chi sa o crede di sapere; a chi ha una cognizione degli eventi proprio grazie ai libri già canonici dello stesso Levi e di altri. Il suo obiettivo non è solo quello di colmare una lacuna nella conoscenza altrui, ma anche quello di escludere i malintesi, le falsificazioni e gli stereotipi. Gli strumenti adottati da Levi a questo scopo sono di natura stilistico-retorica; nei Sommersi e i salvati vengono instaurati due diversi “stili della memoria”: l’uno è teso a confutare la falsa chiarezza; l’altro, basato sul parallelismo e la reciprocità degli opposti, mostra la qualità razionale del discorso di Levi. Nell’articolo si prendono in considerazione caratteristiche ed esempi dei due stili, mettendoli in relazione con i temi del libro e il suo contesto storico-culturale.
In The Drowned and the Saved, Primo Levi speaks not as a witness who addresses those who do not know, but as a writer who also addresses those who know or believe they know, those who have an understanding of events thanks to books already canonical by the same Levi and other authors. Its objective is not only to fill a gap in people’s knowledge, but also to exclude misunderstandings, falsifications and stereotypes. For this purpose, Levi adopts stylistic-rhetorical tools; in The Drowned and the Saved two different “styles of memory” are established: one aimed at refuting false clarity; the other, based on the parallelism and reciprocity of opposites, shows the rational quality of Levi’s discourse. The article takes into consideration the characteristics and examples of the two styles, relating it to the themes of the book and its historical-cultural context.
Il tema della memoria è fondamentale in I sommersi e i salvati, l’ultimo libro pubblicato da Primo Levi prima del suo suicidio. L’articolo indaga questo tema seguendo la distinzione proposta da Tzvetan Todorov in un suo saggio tra “memoria esemplare” o “memoria giudiziaria” e “memoria letterale”, ovvero la memoria della offesa ricevuta dal deportato e fonte della sua sofferenza. Partendo dai testi scritti da Levi al ritorno dal Lager, il saggio evidenzia i vari aspetti della memoria letteraria di Levi ponendola in confronto con quanto egli stesso ha scritto nel capitolo «La memoria dell’offesa» che apre I sommersi e i salvati. Il tema della memoria è fondamentale nello scrittore torinese ed è oggetto anche di uno dei primi racconti scritti al ritorno da Auschwitz, I mnemagoghi. «La memoria dell’offesa» è quindi il discorso sul metodo su cui poggia l’intero edificio del suo ultimo libro, così che possiamo considerarlo con una immagine la cantina di I sommersi e i salvati.
The theme of memory is fundamental in The Drowned and the Saved, the last book published by Primo Levi before his suicide. The article investigates this theme by following the distinction proposed by Tzvetan Todorov in an essay between “exemplary memory” or “judicial memory” and “literal memory”, or the memory of the offense received from the deportee and source of his suffering. Starting from the texts written by Levi on his return from the Lager, the essay highlights the various aspects of Levi’s literary memory, comparing it with what he himself wrote in the chapter «The memory of the offense» which opens The Drowned and the Saved. The theme of memory is fundamental in the Turin writer and is also the subject of one of the first stories written on returning from Auschwitz, I mnemagoghi. «The memory of the offense» is therefore the discourse on the method on which the entire building of his latest book rests, so that we can consider it with an image the cellar of The Drowned and the Saved.
Un’opera con il segno meno è un Gedankenexperiment su I sommersi e i salvati, un tentativo di leggere ad alzo zero l’ultimo libro di Primo Levi, ossia in base alle aspettative di un lettore del 1986 che già conoscesse i testi di Levi ma che non avesse a disposizione nient’altro che il libro stesso. L’articolo mostra come Levi eluda qualsiasi ragionevole aspettativa di un tale lettore, ponendo l’accento su ciò che viene qui definito “segno meno”. insistendo cioè sulla persistente ignoranza delle vittime, sui limiti delle facoltà umane, su vuoti e lacune della conoscenza, sulle differenti motivazioni del silenzio da parte dei carnefici, delle vittime, dei testimoni e degli spettatori. Capitolo dopo capitolo, Levi conduce un esame critico di se stesso, della propria memoria, dei propri scritti precedenti, della propria linea argomentativa. Tuttavia, al segno si affianca quello di moltiplicazione, che si applica a un numero cospicuo quanto crescente di questioni legate alla Shoah in generale e all’esperienza personale di Levi in particolare. Ambedue i segni sono portatori di provocazione – e induttori di pensiero – verso il lettore, fino a delineare, nella Conclusione dell’opera, una paradossale pedagogia che riguarda l’etica individuale e la storia del tempo attuale (nonché a venire).
A Work with the Minus Sign is a Gedankenexperiment on The Drowned and the Saved, an attempt to read Primo Levi’s last book at point-blank, i.e. according to the expectation of a reader of 1986 who already knew Levi’s texts but wouldn’t have at hand nothing else than the new book itself. The article shows how Levi eludes any reasonable expectation of such a reader by insisting on what is called here “minus sign”: by insisting on the persistent ignorance of the victims, on the limits of human faculties, on the gaps and lacks of knowledge, on the different motivations of silence about the Shoah in the victims, the perpetrators, the witnesses, and the bystanders. Chapter after chapter, Levi carries out a critical scrutiny of himself, his memory, his previous writings, his arguments. However, the minus sign is flanked by a multiplication sign that concerns a great and growing number of issues about the Shoah in general and Levi’s individual experience in particular. Both signs are provoking – and thought-provoking – towards the reader, up to the point of envisaging, in the Conclusions of the book, a paradoxical kind of pedagogy in the domains of personal ethics and of contemporary (and future) history.
Il saggio affronta la genesi ventennale di I sommersi e i salvati di Primo Levi, le sue radici nei carteggi con gli interlocutori tedeschi e nella loro rielaborazione letteraria negli anni Settanta, mettendone in luce le implicazioni critico-interpretative.
The essay retraces the development of Primo Levi’s last book, The Drowned and the Saved (1986), discussing the impact of 1960s correspondence between Levi and his German readers and their literary transfiguration during the Seventies. The study aims to underline the critical and interpretive consequences of this historical and genetic approach.
ha ottenuto un PhD in Italian Studies alla University of Reading nel 2005, ed è attualmente direttrice di ricerca in italianistica e Grant Champion della School of Languages, Cultures and Societies alla University of Leeds. I suoi principali interessi di ricerca sono: la letteratura multilingue, le letterature regionali, le rappresentazioni culturali e artistiche del policentrismo italiano e delle tensioni tra la dimensione locale e quella nazionale. Il suo metodo di ricerca combina stilistica, narratologia e problemi di identità sollevati dalla diversità multiculturale. Ha pubblicato studi sulla letteratura multilingue, su lingua e stile di scrittori italiani contemporanei (Luigi Meneghello, Andrea Camilleri, Joyce Lussu, Laura Pariani, Sergio Atzeni, Marcello Fois), sul canone letterario, sulla poesia dialettale moderna, sulla letteratura sarda e sulle scritture femminili del ventesimo secolo. Si interessa inoltre di storia contemporanea italiana, con particolare attenzione alla Resistenza e ai conflitti sociali degli anni Settanta.
PhD in Italian Studies (University of Reading, 2005), she is currently director of research in Italian and Grant Champion in the School of Languages, Cultures and Societies at the University of Leeds. Her main research interests are: multilingual literature, regional literatures, cultural and artistic representations of Italian polycentrism and of the tension between local and national dimension. Her research approach integrates stylistics, narratology, and problems of identity raised by multicultural diversity. She has published on multilingual literature, the language and style of contemporary Italian writers (e.g. Luigi Meneghello, Andrea Camilleri, Joyce Lussu, Laura Pariani, Sergio Atzeni, Marcello Fois), the literary canon, modern dialect poetry, Sardinian literature, and twentieth-century women’s writing. She also has an interest in contemporary Italian history, with a main focus on the Resistance and on social unrest in the 1970s.
insegna nei corsi online dell’Università per Stranieri di Siena. Si è occupata soprattutto di poesia contemporanea, dei rapporti tra letteratura e canzone d’autore e di didattica della letteratura. Insieme a Valentina Tinacci ha curato l’edizione dell’opera a testimonianza mista (cartacea e digitale) Un giorno o l’altro di Franco Fortini (Quodlibet 2006). È autrice di libri di testo e di strumenti didattici per la scuola.
teaches online at the University for Foreigners of Siena. Her main research fields are contemporary poetry, the relationships between literature and popular music and literature teaching. With Valentina Tinacci, she edited the paper and digital work Un giorno o l’altro (Quodlibet 2006) by Franco Fortini. She writes books for the schools and has elaborated educational materials and tools.
è dottore di ricerca in Letteratura comparata presso l’Università di Trento e di Paris Ouest Nanterre la Défense. Insegna Lingua e Letteratura francese nelle università di Trento e di Ferrara. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente la letteratura francese contemporanea e la storia della critica. Nel 2019 è uscito il suo libro Au-delà du formalisme. La critique des écrivains pendant la seconde moitié du XXe siècle (France-Italie) (Garnier).
PhD in Comparative Literature at the University of Trento and the University Paris Ouest Nanterre la Défense. She teaches French language and literature at the Universities of Trento and Ferrara. Her research interests focus on French contemporary literature and the history of criticism. In 2019, her book Au-delà du formalisme. La critique des écrivains pendant la seconde moitié du XXe siècle (France-Italie) (Garnier) was published.
è dottorando in Italianistica presso l’Università di Pisa in cotutela con la Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg. Nella sua ricerca si occupa prevalentemente di analizzare modi e forme del romanzo generazionale nella letteratura italiana contemporanea. Tra i suoi principali interessi di ricerca la teoria dei generi (in particolare la forma del romanzo familiare), la narrativa contemporanea e le diverse modalità di rappresentazione delle menti finzionali. Ha curato i volumi La lingua dell’esperienza. Attualità dell’opera di Luigi Meneghello (con l’associazione ForMaLit) e «Non poteva staccarsene senza lacerarsi». Per una genealogia del romanzo familiare italiano (assieme a Ilaria Muoio e Gloria Scarfone).
is a PhD student in Italian Literature at the University of Pisa in cotutelle with Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg. In his research he deals with ways and forms of generational novel in contemporary Italian literature. Among his research interest are genre theory, contemporary literature and narratological issues like how fictional minds are represent in literature. He edited the books La lingua dell’esperienza. Attualità dell’opera di Luigi Meneghello (co-edited with ForMaLit) and «Non poteva staccarsene senza lacerarsi». Per una genealogia del romanzo familiare italiano (co-edited with Ilaria Muoio and Gloria Scarfone).
ha una “Eigene Stelle” presso l’Institut für Romanische Philologie della Freie Universität Berlin. Ha conseguito il dottorato presso l’Università di Bologna dopo essersi formata presso lo stesso ateneo nonché presso l’Università di Heidelberg e University College London. È stata borsista “Humboldt” e successivamente ricercatrice presso la Humboldt Universität di Berlino, in seguito Visiting Scholar presso Columbia University. È responsabile della 3. Unità di Ricerca del progetto FIRB Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento (Università di Roma La Sapienza). Si occupa di letteratura italiana dal Cinquecento a oggi, con particolare attenzione a problemi relativi a traduzione, riscrittura e intertestualità. Tra le sue pubblicazioni: Karl Kraus e Shakespeare (Quodlibet 2012), L’autore esposto (Peter Lang 2016), Renaissance Rewritings (De Gruyter 2017, curato assieme a H. Pfeiffer e T. Roth). Il suo attuale progetto di ricerca verte sulla ricezione di Luciano di Samosata nella letteratura italiana del Cinquecento.
holds a “Eigene Stelle” at the Institut für Romanische Philologie of Freie Universität Berlin. She has gained her PhD at the University of Bologna, where she studied, with abroad periods at the University of Heidelberg and University College London. She has been “Humboldt” fellow and researcher at the Humboldt Universität in Berlin, and then Visiting Scholar at Columbia University. She supervises the Third Research Unit of the FIRB project Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento (Università di Roma La Sapienza). Her research interests include the Italian Literature from the 16th century to present, with a focus on translation, re-writing and intertextuality. Among her publications: Karl Kraus e Shakespeare (Quodlibet 2012), L’autore esposto (Peter Lang 2016), Renaissance Rewritings (De Gruyter 2017, edited with H. Pfeiffer and T. Roth). Her current research project is dedicated to Luciano di Samosata’s impact on Italian Literature of the 16th century.
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