Archetipo e sopravvivenza. Due modelli per lo studio dell’immaginario
Esiste davvero qualcosa come la critica tematica? Il rasoio di Occam suggerirebbe di no. Se ogni atto critico è un atto interpretativo, e se nessun atto interpretativo può fare a meno di un investimento tematico (e cioè dell’interrogazione sui legami che connettono l’argomento e il senso di un’opera), allora ogni critica è tematica e non c’è alcuna necessità di postulare un nuovo ente tautologico e superfluo.
Se si parla da una ventina di anni a questa parte di “ritorno della critica tematica” è solo per una comprensibile rappresaglia contro la sottovalutazione del piano del contenuto che un ventesimo secolo a dominante formalista aveva terroristicamente imposto agli studiosi. Oggi si rischia semmai l’eccesso opposto – tutto il potere al contenuto, e la forma nel ripostiglio degli attrezzi –, ma si sa come funzionano i corsi e i ricorsi delle mode culturali.
Il prezzo è senz’altro un momentaneo regresso in termini di raffinatezza delle procedure e degli strumenti di analisi, ma può valere la pena di pagarlo in cambio di una nuova immissione di sangue rosso, di una rinnovata volontà di chiedere alla critica un pronunciamento sui rapporti che corrono tra letteratura e realtà umana.
Se è vero che c’è nell’approccio “tematico” qualcosa di regressivo rispetto alla sofisticatezza delle analisi formali cui ci aveva abituato la migliore critica del Novecento, è perché esso ci riporta in qualche modo indietro, al bivio da cui si dipartono (o forse confluiscono) linguaggio e mondo, testo e contesto, enunciato e referente. Ci riporta, più precisamente, a ciò che letteratura e cultura hanno in comune. A buon diritto perciò l’immaginario è diventato la parola d’ordine della ricerca letteraria di questi anni.
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