Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi
A partire dagli anni Novanta, il panorama della narrativa internazionale ha iniziato a mutare. Gli scrittori che si sono imposti, come José Saramago (1922), Alice Munro (1931), Mordecai Richler (1931-2001), Philip Roth (1933), Abraham Yehoshua (1936), Amos Oz (1939), John M. Coetzee (1940), Edmund White (1940), Michael Cunningham (1952), Jonathan Franzen (1959), Ingo Schulze (1962), per più aspetti Michel Houellebecq (1958 o 1956) o, ancora, Jonathan Littell (1967), sembrano aver liquidato il postmoderno.
I più vecchi se ne sono tenuti sempre lontani: la loro produzione ha attraversato i decenni precedenti dimostrando che se il postmoderno era una dominante culturale, non copriva però tutto l’orizzonte; i più giovani esordiscono confrontandosi con problemi di altro ordine. Neppure manca chi, pur essendo stato uno dei protagonisti del postmodernism, sembra intenzionato ad attraversarlo, se non a congedarsene: Underworld e Falling Man, che Don DeLillo pubblica nel 1997 e nel 2007, non possono essere letti solo con le categorie che servono a interpretrare Mao II o Libra.
Le parole d’ordine dei decenni precedenti, e che da Lyotard a Jameson sono state individuate per tracciare il campo di una nuova condizione e di un nuovo sensorio, hanno smesso di esercitare il loro primato. In una certa misura, questi scrittori non ci parlano dello stesso mondo che ci viene narrato da Pynchon o da Doctorow, e neppure da DeLillo o da Rushdie; senza dubbio, la loro attenzione sulla contemporaneità è di una qualità diversa: pone al centro l’esperienza di personaggi credibili, ritratti nella loro piena complessità psicologica e nel mezzo di rapporti e conflitti sociali e morali. La vita quotidiana è tornata ad essere lo scenario in cui si misura, in modo problematico e senza garanzie, la ricerca dei valori collettivi e il senso dei destini individuali.
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